Psicologia
Donna
QUANDO I BAMBINI ASSISTONO ALLA VIOLENZA:
LA VIOLENZA ASSISTITA INTRAFAMILIARE


Definizione del CISMAI ( Coordinamento Italiano dei Servizi contro il Maltrattamento e l'Abuso
all'Infanzia, 1999):
"Per violenza assistita intrafamiliare si intende qualsiasi atto di violenza fisica, verbale, psicologica,
sessuale ed economica compiuta su figura di riferimento o su altre figure significative, adulte o
minori; di tale violenza il bambino può fare esperienza direttamente (quando essa avviene nel suo
campo percettivo), indirettamente (quando è a conoscenza della violenza) e/o percependone gli
effetti".
Ne sono vittime tutti coloro che vivono in famiglie dove avvengono maltrattamenti su altri membri
della famiglia: ne è vittima quindi uno dei genitori se l'altro compie violenze sui figli o su un altro
familiare; i bambini che vivono in situazioni di violenza domestica, quando cioè uno dei genitori
(generalmente la madre) subisce violenze da parte dell'altro, o da parte di un nuovo partner, o da
un altro membro della famiglia; i bambini che vivono in famiglie dove avvengono maltrattamenti
fisici, psicologici, trascuratezza, abusi sessuali ai danni di fratelli, sorelle o altri minori o su
qualsiasi altro membro della famiglia. È violenza assistita quando un bambino assiste a
maltrattamenti, sevizie, abbandoni di animali che vivono con la famiglia.
È sconvolgente e traumatizzante per il bambino non solo vedere la violenza, sentire il rumore delle
percosse, gli oggetti che si rompono, le voci alterate, gli insulti e le minacce, ma anche sapere che
certe cose avvengono, constatarne gli effetti vedendo mobili e oggetti distrutti, venire a
conoscenza degli effetti fisici del maltrattamento sul familiare (ematomi, fratture, ricoveri
ospedalieri, ferite), percepire la sofferenza, la disperazione, la tristezza, l'angoscia, lo stato di allerta
delle vittime.
Le conseguenze sul bambino possono essere molto gravi non solo per gli aspetti appena
menzionati, ma anche perché le persone coinvolte sono proprio i genitori, ovvero le figure che in
realtà dovrebbero prendersi cura di lui. Assistere alla violenza di un genitore sull'altro crea
confusione nel bambino su ciò che significa ed è l'affetto, la violenza, l'intimità, il rispetto, mina il
legame di attaccamento tra bambino e genitori, relazione all'interno della quale il piccolo può
sentirsi protetto e sicuro, muoversi con fiducia, soddisfando i suoi bisogni di accudimento e
dipendenza, fondamentali per la crescita. I bisogni più profondi di questi bambini sono disattesi,
non solo perché spettatori delle violenze, ma anche perché indirettamente deprivati, sia a causa
delle condizioni di stress e del precario equilibrio psico - fisico materno, che influenzerà
negativamente la relazione madre - bambino, sia a causa delle ricadute del maltrattamento sulle
modalità educative e sull'esercizio delle funzioni genitoriali in generale.
Il bambino perde così dei punti di riferimento essenziali: vede le figure di attaccamento da un lato
terrorizzate, impotenti e disperate (la madre), dall'altro pericolose e minacciose (il padre).
Numerose ricerche fatte in proposito, hanno evidenziato come questo "stravolgimento" nel
legame madre - figlio determinerà nel bambino un tipo di attaccamento "disorganizzato". Tale
modello relazionale distorto e patologico influenzerà i rapporti affettivi che l'adolescente, e l'adulto
poi, instaureranno nel corso della vita. Transazioni familiari violente educano alla violenza.
I bambini che assistono alle violenze non sono in grado di comprendere la situazione e questo li
porta ad equivocare sulle cause degli scontri tra i genitori, attribuendole, molto spesso, al proprio
cattivo comportamento. Cercano di trovare da soli delle risposte, arrivando a una propria
elaborazione cognitiva ed emotiva del conflitto. Questo processo mentale è influenzato da due
fattori in particolare:
· Il conflitto in sé (tipo di manifestazione, intensità, frequenza, contenuto, gestione e risoluzione).
· La mancanza di informazioni su ciò che avviene intorno e che colpisce direttamente il bambino
(assenza di difese, competenze e sostegno necessari a costruire una descrizione/spiegazione
degli eventi che possa coniugarsi con il normale adattamento del bambino alla realtà).
In merito alla tipologia del conflitto, considerando il contenuto, il conflitto sessuale (gelosia,
questioni coniugali) è quello che pone maggiormente il bambino in una posizione di
osservatore/valutatore, mentre i conflitti che implicano disaccordi sull'educazione e sulla gestione
dei figli sono quelli che favoriscono un'attribuzione di responsabilità a sé da parte del bambino.
Frequenza e intensità delle violenze contribuiscono ad aggravare la situazione: il conflitto e la
violenza reiterati espongono il figlio a preoccupazione, ansia e a sviluppare reazioni sintomatiche
e comportamentali di rilievo.
Per quanto riguarda il tipo di manifestazione del conflitto la violenza fisica è allo stesso livello della
violenza verbale nella misura in cui quest'ultima può rappresentare una minaccia per chi la
subisce: alzare il tono oltre la soglia abituale, minacciare, soprattutto se attraverso l'uso di oggetti
o armi, può assumere il bambino lo stesso significato di una scena reale di violenza. È molto
importante anche la reazione della vittima che rappresenta per il bambino un indicatore rilevante
per attribuire significato a quanto sta accadendo.
Rispetto alla capacità di gestione e risoluzione da parte degli adulti, quando non vengono messe
in atto strategie di coping efficaci e il conflitto appare irrisolto, la situazione si rivela particolarmente
stressante anche al di là del tempo in cui si è verificata l'interazione violenta.
Per quanto riguarda l'elaborazione e l'utilizzazione delle informazioni, il conflitto porta il bambino
(in modo diverso a seconda dell'età e delle capacità cognitive e affettive) a porsi 3 domande:
1) Ciò che sta succedendo fa parte della routine o è meritevole di attenzione: è grave e pericoloso?
2) Perché è successo?
3) Devo fare qualcosa? Devo intervenire?
Per cercare di rispondere a queste domande, si suppone che il bambino proceda per due fasi di
elaborazione:
FASE 1 - elaborazione primaria: il bambino cerca di ricavare informazione sul grado di negatività,
di minaccia e di rilevanza della situazione, per verificare se essa è pericolosa o no. Con
l'aumentare dell'età i bambini sono in grado di percepire anche forme di conflittualità più sottili e
meno esplicite. Se la valutazione affettiva della situazione crea nel bambino un vissuto emotivo
molto forte, l'elaborazione primaria può provocare di per sé reazioni comportamentali o sintomi. Se
al contrario l'elaborazione primaria porta ad una valutazione di non gravità, il bambino distoglie
l'attenzione; se la valutazione è negativa ma è tollerata dal bambino si passa all'elaborazione
secondaria.
FASE 2 - elaborazione secondaria: in questa fase il bambino cerca di ricavare maggiori
informazioni possibile per comprendere gli eventi e far fronte alla situazione. Inizia a osservare i
genitori, a cogliere i loro messaggi verbali e non verbali per cercare di trovare le cause del conflitto.
Per rispondere alla domanda "perché è successo?" il bambino opera un'attribuzione causale (ha
la funzione di superare la condizione di impotenza e di fare previsioni per l'evoluzione del conflitto.
Il bambino cerca di stabilire se la situazione è dovuta a sé, ad altri o a circostanze esterne. In
particolare, i bambini in età prescolare non sono in grado di capire che gli avvenimenti antecedenti
siano connessi, in senso causale, a quelli successivi e tenderanno ad attribuire a sé stessi la
causa del conflitto tra i genitori) ed una attribuzione di responsabilità (individuare il responsabile,
colui che scatena la violenza. Il bambino valuta in base a criteri che dipendono dal livello di
sviluppo morale raggiunto e dai modelli appresi precedentemente al conflitto. Riesce a esprimere
empatia ed in base ad essa possono stabilire chi è la "vittima" e chi il "carnefice").
Passando all'aspettativa di efficacia, il bambino può decidere di avere gli strumenti per intervenire
con successo in base:
o all'attribuzione causale
o alle strategie di coping in suo possesso
o allo stato emotivo
o all'età
I bambini più piccoli credono di poter intervenire nel cercare di risolvere la situazione e quando
realizzano la propria impotenza provano un forte vissuto di frustrazione. I più grandi invece
elaborano in modo più realistico ed hanno maggiori competenze di problem solving. Per tutti la
cronicità del conflitto corrisponde al senso di fallimento e alla percezione di essere essi stessi
vittime di una situazione verso la quale ci si sente impotenti.



Conseguenze sul bambino della violenza assistita intrafamiliare.
I bambini esposti a violenza domestica provano paura, rabbia, terrore, confusione, impotenza.
Apprendono che l'uso della violenza è normale nelle relazioni affettive e che l'espressione dei
sentimenti, dei pensieri, delle emozioni, delle opinioni è pericolosa in quanto può scatenare la
violenza. In particolare l'educazione sentimentale di questi bambini è impregnata di stereotipi di
genere che prevedono la svalutazione della figura materna e il disprezzo verso le donne ma anche
verso gli uomini che non si adeguano a questi stereotipi.
Sviluppano un forte senso di colpa per il fatto di sentirsi privilegiati quando non sono vittimizzati
direttamente rispetto ai familiari che sono bersaglio di percosse, stupri, minacce; si sentono in
colpa perché credono di essere i responsabili della violenza perché "cattivi".
Si percepiscono impotenti e incapaci perché non riescono a modificare la situazione, con
conseguenti problemi di depressione, ansia , vergogna, disperazione.
Possono avere continui pensieri su come prevenire la violenza e mettere in atto comportamenti
volti a calmare il maltrattante. Possono così assumere atteggiamenti compiacenti e dire bugie,
imparare a dare ragione a uno o all'altro genitore a seconda delle circostanze. Queste assunzioni
di responsabilità eccessive e non consone all'età, fa si che i bambini possono imparare ciò che gli
altri vogliono, non come loro e gli altri in realtà si sentono. Senza questa conoscenza non riescono
a sviluppare empatia né per se stessi né per gli altri.
Hanno maggiori probabilità di essere essi stessi vittime di violenza, abusi, maltrattamenti.
Negli adolescenti si riscontra una più alta incidenza di comportamenti devianti e delinquenziali,
rapporti sentimentali incentrati sulla violenza (a causa dell'apprendimento di modelli relazionali
distorti e di disturbi a livello emotivo e comportamentale), uso di sostanze stupefacenti, violenze
sessuali. Possono sviluppare forti vissuti depressivi che a volte culminano in atti suicidari.
Ma assistere alla violenza ha risvolti dannosi non solo a breve e medio termine, ma anche nella vita
adulta. Negli adulti che durante l'infanzia sono stati testimoni di violenza si possono riscontrare
paura, impotenza, colpa, vergogna, bassa autostima, depressione, distacco emotivo, disturbi
d'ansia, aggressività, impulsività, somatizzazioni, dipendenza, abuso di sostanza, difficoltà di
protezione tendenza a essere vittimizzati, difficoltà genitoriali, violenza fisica, psicologica,
sessuale nei confronti del partner, dei figli e/o di terze persone, disturbi di personalità.
Vediamo più nel dettaglio quali sono i sintomi, conseguenti all'esposizione alla violenza, che si
manifestano in diverse aree di funzionamento:


Comportamentale:
Aggressività, crudeltà verso gli animali, accessi di collera, acting out, immaturità, marinare la
scuola, delinquenza, disordini da deficit d'attenzione e iperattività.

Emotivo:
Ansia, rabbia, depressione, ritiro, mancanza d'autostima.

Sociale:
Basse abilità sociali, rifiuto dei pari, incapacità ad empatizzare con gli altri.

Cognitivo:
Linguaggio povero, ritardi nello sviluppo, difficoltà scolastiche.

Fisiologico:
Problemi legati alla crescita, difficoltà del sonno, disturbi alimentari, comportamenti regressivi,
scarsa coordinazione motoria, sintomi psicosomatici come eczema ed enuresi notturna.

Vorrei soffermarmi su alcuni di essi che, oltre ad essere molto diffusi, possono essere (soprattutto
per i genitori) di più facile individuazione:

Disturbi Psicosomatici: disturbi organici che, non rilevando alla base una lesione anatomica o un
difetto funzionale, sono ricondotti a un'origine psicologica. Ricordiamo, a questo proposito, che
per il bambino il corpo è il mezzo attraverso il quale interagisce con l'ambiente esterno, in
particolare con la madre (questo è dovuto anche al fatto che le sue capacità di elaborazione
cognitiva ed emotiva della realtà sono ancora limitate).
Nel bambino i disturbi psicosomatici devono essere messi in relazione con la maturazione del
funzionamento degli organi e con le caratteristiche dello sviluppo psicologico. Rientrano in questa
categoria le allergie, i disturbi gastrointestinali, l'asma, l'emicrania, l'eczema, l'enuresi notturna (di
cui si è vista l'alta corrispondenza tra la comparsa/scomparsa dell'enuresi e quella di un evento
che segna la vita del bambino).

Acting out: acting out significa "agire, mettere in atto". Il soggetto affronta i conflitti emozionali o i
fattori stressanti interni ed esterni attraverso azioni piuttosto che attraverso la riflessione o i
sentimenti. Con l'azione il soggetto evita di affrontare, per paura, i propri conflitti inconsci
cercando soluzioni sul piano di realtà. È la messa in atto di desideri, pulsioni, fantasmi. Si utilizza
l'acting come meccanismo di difesa quando:
o la pulsione non ha mai acquistato un'espressione verbale
o la pulsione è troppo intensa per potersi scaricare a parole
o il soggetto manca di capacità di elaborazione
Una forma di acting out che si riscontra nei bambini e in particolare in quelli che assistono alla
violenza domestica, è la fuga. Se il bambino ha meno di 11-12 anni, molto probabilmente lo scopo
di questo agito è quello di abbandonare il luogo detestato o temuto (la casa dove avvengono le
violenze). Oppure può marinare la scuola/fuggire da scuola per tornare a casa dalla madre e
controllare la situazione perché ha paura di cosa può succedere lasciandola sola. Una
conseguenza di questo comportamento saranno le numerose assenze scolastiche.
Nell'adolescenza la fuga da casa assume connotati diversi, diviene un comportamento sociale
all'interno di un gruppo: fuga per andare dagli amici, per "fare un giro". La fuga allora si inserisce
spesso in un comportamento psicopatico e può essere l'occasione per la messa in atto di
condotte devianti (furti, violenza, uso di sostanze).

Problemi Cognitivi (linguaggio povero, difficoltà scolastiche, ritardi nello sviluppo): i risultati di
molte ricerche hanno evidenziato che l'esposizione ad alti livelli di violenza durante l'infanzia
danneggia lo sviluppo neuro - cognitivo. Difatti le difficoltà scolastiche sono la norma. In molti casi
si riscontra la presenza nel bambino di un disturbo da deficit dell'attenzione e iperattività:
o disturbi dell'attenzione: scarsa capacità di concentrarsi, di fissarsi su un compito, di organizzare
e di finire un lavoro, ma anche attività ludiche o culturali, frequente cambiamento di attività,
distraibilità eccessiva. Questi bambini sembrano non ascoltare ciò che gli viene detto e non
rispettano le consegne, il lavoro è trascurato, ci sono errori di disattenzione.
o iperattività - impulsività: attività motoria esagerata per l'età, i bambini corrono, si arrampicano,
non riescono a stare seduti, sono sempre in movimento. L'impulsività si esprime con una difficoltà
a rispettare le regole, sia a scuola che a casa. Impongono la propria presenza senza rispettare gli
altri, si lanciano in attività rischiose non valutandone le conseguenze.
Spesso è la scuola stessa a segnalare il problema alla famiglia. Importante, da parte dei genitori,
non sottovalutare la situazione.

Disturbo Post - traumatico da Stress (DPTS): è l'insieme delle forti sofferenze psicologiche, in
alcuni casi perduranti anche per molti anni, che a volte si strutturano come conseguenza a medio -
lungo termine di un evento traumatico, catastrofico o violento. Questo disturbo rappresenta la
possibile risposta di un soggetto ad un evento critico abnorme. Il PTSD può prodursi a partire da
poche settimane dall'evento, e perdurare per molto tempo; in altri, casi, il disturbo si manifesta ad
una certa distanza di tempo dall'evento, anche dopo diversi mesi. I principali disturbi, accusati
dalla maggior parte dei pazienti sono: intrusioni, evitamento, iperattivazione.
In particolare, si possono riscontrare tra gli altri sintomi:
o Flashback: un vissuto intrusivo dell'evento che si propone alla coscienza, "ripetendo" il ricordo
dell'evento.
o Numbing: uno stato di coscienza simile allo stordimento ed alla confusione con sentimenti di
distacco e di estraneità verso gli altri e riduzione marcata dell'interesse..
o Evitamento: la tendenza ad evitare tutto ciò che ricordi in qualche modo, o che sia riconducibile,
all'esperienza traumatica (anche indirettamente o solo simbolicamente).
o Incubi: che possono far rivivere l'esperienza traumatica durante il sonno, in maniera molto
vivida.
o Iperattivazione: caratterizzata da insonnia, irritabilità, ansia, aggressività e tensione
generalizzate.
In alcuni casi, la persona colpita cerca "sollievo" (ma in realtà peggiorando molto la situazione)
con abusi di alcool, droga, farmaci e/o psicofarmaci; spesso sono associati sensi di colpa per
quello che è successo o come ci si è comportati (o per il non aver potuto evitare il fatto), sensi di
colpa che sono spesso esagerati ed incongruenti con il reale svolgimento dei fatti e delle
responsabilità oggettive (sono detti anche complessi di colpa del sopravvissuto); spesso, sono
compresenti anche forme medio - gravi di depressione e/ ansia generalizzata. In alcuni casi si
vengono a produrre delle significative tensioni familiari, che possono mettere in difficoltà i parenti
della persona con PTSD. Nei bambini si possono manifestare: giochi ripetitivi in cui vengono
espressi temi o aspetti riguardanti il trauma; sogni spaventosi senza un contenuto riconoscibile;
rappresentazioni ripetitive specifiche del trauma.

Bambini che assistono alla violenza in famiglia sui fratelli.
Gli atti violenti subiti dai fratelli possono essere anche più destabilizzanti per gli altri minori, in
quanto l'identificazione fra pari è più immediata che non l'identificazione con la figura genitoriale.
La vicinanza di età, lo stato di dipendenza propria della condizione di figlio, la mancanza di un
riferimento adulto che possa aiutare e proteggere il fratello maltrattato, il naturale legame di
solidarietà fra pari, rende ancora più complesso il quadro post - traumatico di questi bambini.
I fratelli testimoni possono reagire in modi differenti:
1) Bisogno di proteggere il fratello che subisce i maltrattamenti, spesso accompagnato da intensi
vissuti di sofferenza e confusione. Gli esiti, nella maggior parte dei casi, sono contradditori e
inefficaci.
2) Il senso di colpa: nasce dal senso acuto e pervasivo di impotenza, dal non sapersi spiegare
perché questa differenza di trattamento (tra chi assiste e chi subisce), dal sentirsi in dovere di fare
qualcosa per cambiare la situazione. (Esempio pratico: attirare su di sé le violenze del genitore
destinate all'altro fratello).
3) Fuga e negazione: il bambino sospetta qualcosa ma non capisce, non può esprimere i propri
pensieri e le proprie emozioni perché sa che gli adulti non risponderebbero. Può diventare un
comportamento omertoso ? negazione e copertura dei fatti.
4) Aggressività verso la vittima: il bambino accusa il fratello di non essere stato capace di bloccare
la violenza (stesso meccanismo che scatta nei confronti della madre - vittima).
5) La violenza appresa: il bambino che assiste alla violenza può identificarsi con l'aggressore o
con il fratello abusato ? tentativo di uscire dall'invisibilità assegnategli dalle dinamiche familiari in
atto.
In ambito clinico c'è ancora molta strada da fare: esiste ancora un atteggiamento di trascuratezza,
distrazione e ignoranza sulle conseguenze che la violenza assistita sui fratelli ha su questi
bambini. È necessario non ridurre l'intervento alla sola diade vittima - aggressore, ma estenderlo
anche a tutto il contesto familiare ? quando un membro della famiglia soffre è essenziale prendere
in considerazione l'effetto che questo può avere sugli altri componenti.
In questo caso a livello terapeutico è opportuno iniziare un percorso di riparazione con entrambi i
fratelli (così come la madre maltrattata è associata, nel percorso terapeutico, al figlio che ha
assistito alle violenze).


Come aiutarli? L'intervento con i bambini.

Linee guida e problematiche generali:
Prima di intraprendere qualsiasi tipo di intervento è indispensabile ricostruire le condizioni
necessarie per la protezione, sia fisica che psicologica, del genitore maltrattato e del bambino.
Solo dopo aver fatto questo il terapeuta può iniziare a lavorare con il bambino e con la famiglia
(confrontarsi con l'assetto familiare è una tappa necessaria ed essenziale dell'intervento).
Successivamente la scelta di intraprendere un percorso terapeutico con questi bambini deve
necessariamente seguire ad una valutazione diagnostica accurata che definisca il tipo di impatto
prodotto sul bambino, tenendo anche presente che la violenza domestica è un fattore i rischio ad
altre forme di abuso in danno ai minori (motivo ulteriore per cui la protezione del bambino è
fondamentale).
Per approfondire la comprensione delle reazioni dei bambini di fronte alla violenza e il modo in cui
queste vengono manifestate è utile indagare alcune aree significative: età e livello evolutivo del
bambino, tipo e gravità delle violenze, contesto familiare, tipo di intervento sociale ed eventuali altri
fattori stressanti.
È importante quando si lavora con tutta la famiglia contenere e tenere sotto controllo le
problematiche genitoriali agite all'interno del setting che possono ostacolare la creazione di uno
spazio terapeutico per il bambino, indispensabile affinché questo si senta protetto, ascoltato e
sostenuto. A volte i genitori possono arrivare ad ostacolare o impedire qualsiasi intervento a
riparazione del danno subito dai figli: la madre, vittima delle violenze, può (come abbiamo detto
anche prima) faticare a riconoscere la sofferenze del bambino; il genitore maltrattante può porsi
nei confronti del danno subito dai figli con lo stesso atteggiamento di minimizzazione e/o di
negazione con cui si pone rispetto alle violenze attuate sulla partner.
Ciò che frequentemente emerge è un'adultizzazione e genitorializzazione dei figli e richieste di
alleanza e sostegno che sia il maltrattante sia la madre rivolgono loro. Il bambino è così costretto
dagli eventi e dalla situazione familiare ad assumere comportamenti, ruoli e responsabilità da
adulto (per potersi adeguare alla situazione di tensione che è costretto a vivere, per proteggere, se
ci sono, fratelli o sorelle più piccole, per difendere il genitore più debole). La cura del bambino
rischia, quindi, di essere risucchiata dalle problematiche dei genitori e dai meccanismi di
triangolazione, ed i bambini continuano ad essere spettatori delle dinamiche agite dagli adulti.


Terapia individuale con il bambino:
È necessario che il terapeuta lavori su alcuni aspetti fondamentali:
1) I legami di attaccamento danneggiati con la perdita delle figure di attaccamento e il conseguente
vissuto di pericolo per la propria sopravvivenza. L'incontro con il terapeuta può rappresentare per
il bambino l'inizio di una relazione con un adulto che sa essere protettivo, attuando modalità
relazionali accoglienti e affettive, e contenitivo verso eventuali comportamenti violenti e/o
aggressivi.
2) Il senso di colpa. Nell'attribuirsi la colpa di ciò che accade in famiglia, i bambini cercano di
mantenere "integre" e di tutelare le figure genitoriali. Importante non sottovalutare la funzione
protettiva che il senso di colpa ha rispetto ad altri vissuti negativi (rabbia, ostilità) sperimentati non
solo nei confronti del genitore maltrattante ma anche verso il genitore vittima, percepito come
"cattivo" in quanto non sufficientemente protettivo.
3) Valutare i possibili adattamenti psicologici del bambino rispetto alla situazione. Spesso vengono
utilizzati potenti meccanismi di difesa (la rimozione, la negazione, la scissione, l'identificazione
proiettiva), funzionali per una semplificazione emotive e cognitiva della realtà:
o Versante emotivo: confusione e motiva e congelamento delle emozioni ? aiutarli a riconoscere e
dare un nome alle emozioni ? recupero competenze emotive (necessario per una successiva
ricostruzione ed elaborazione dell'esperienza traumatica)
o Versante cognitivo: negazione degli eventi e del danno ("non è successo niente di grave"),
evitare i ricordi ("tanto non mi ricordo niente") o a rivisitarli continuamente ("se io avessi fatto…") ?
rivisitazione puntuale e coerente dei fatti per aiutare il bambino a fare contatto con i pensieri e le
azioni legati all'episodio traumatico ? questi aspetti saranno reintegrati nell'elaborazione del
ricordo traumatico ? elaborazione dei vissuti di impotenza e del senso di colpa.
4) Valutazione di possibili adattamenti patologici: identificazione con l'aggressore o con la vittima.
La terapia in questo caso deve favorire una regressione, fino a un livello tollerabile per il bambino,
per poi aiutare il bambino a gestire e a contenere gli aspetti "buoni" e "cattivi" del proprio mondo
interno.



Interventi rivolti alla diade madre - bambino.
Obiettivo: riparare la relazione tra bambino e genitore maltrattato.
Punti fondamentali:
1) Facilitare nella relazione madre - bambino la comunicazione e la comprensione dell'esperienza
traumatica. I bambini che assistono alla violenza e le madri che la subiscono spesso arrivano in
terapia senza aver mai parlato tra loro, talvolta nemmeno accennato alla violenza agita in casa; sia i
bambini che la madre possono attivarsi per impedire all'altro il contatto con i ricordi dolorosi,
rinforzandosi reciprocamente nell'utilizzo di meccanismi di negazione e minimizzazione. Il
terapeuta, contenendo le preoccupazioni della madre e del figlio, può agevolare l'espressione delle
paure, dei vissuti e dei timori reciproci e facilitare una comunicazione diretta tra i due, avviando il
bambino in un percorso di condivisione con il genitore ed offrendo alla madre la possibilità di un
recupero del rapporto con il figlio ? ridefinizione condivisa dei fatti.
2) Contenimento ed elaborazione dei vissuti di rabbia e ostilità del bambino nei confronti del
genitore potenzialmente protettivo.
3) Riconoscimento e la condivisione del danno di cui sono portatori i bambini che hanno assistito.
4) L'individuazione e la condanna dei comportamenti violenti (e non della persona in toto che li ha
messi in atto).
5) La ridefinizione dell'eventuale scelta materna di separarsi/allontanarsi dal partner violento e la
conseguente assunzione di responsabilità di quest'ultima rispetto alla protezione di sé e del
bambino.


Il lavoro di gruppo con i bambini:
L'intervento di gruppo può essere utile perché:
Ø Consente una presa in carico di quei bambini che non possono svolgere regolari sedute
settimanali (questo accade se la famiglia è impossibilitata a fornire un adeguato sostegno alla
terapia).
Ø Rappresenta una possibilità di cura meno stigmatizzante ("il matto, il malato"), quindi meno
pericolosa e più facilmente accettabile.
Ø È un valido strumento per il lavoro con fratelli che hanno assistito a violenze in famiglia.
Ø È un'occasione per osservare su se stessi e negli altri punti di forza e di debolezza ed essere
uno spazio all'interno del quale mettere in atto nuove modalità relazionali.
L'intervento mira a fornire un sostegno psicologico/educativo ? ridefinizione e riletture delle
comunicazioni verbali e non verbali dei partecipanti senza mai accedere a livelli interpretativi ?
potenziare le funzioni dell'IO.
Obiettivi:
1) Rompere il segreto della violenza familiare: il silenzio e il misconoscimento dei comportamenti
violenti, assai frequente in queste famiglie, porta ad un rafforzamento dei meccanismi difensivi del
bambino con conseguente isolamento relazionale ed emotivo che impedisce loro di elaborare i
vissuti connessi all'evento traumatico ? sostenere e legittimare, attraverso il gruppo, tutti i vissuti
emotivi e le modalità adeguate per esprimerli. Il gruppo permette la condivisione dell'esperienza e
dei vissuti ? superamento del senso di stigmatizzazione e di isolamento.
2) Sperimentare il gruppo come luogo positivo e contenitivo: ciascun bambino potrà sperimentare
modalità relazionali alternative rispetto a quelle messe in atto nella famiglia violenta, che
rafforzeranno i vissuti di fiducia e sicurezza. Utilizzo di regole centrate sul rispetto delle opinioni,
dei sentimenti e dello spazio altrui.
3) Potenziare l'autostima: aiutare i bambini ad esprimere pensieri ed emozioni e a riscoprire le parti
positive di sé e le proprie capacità.
4) Apprendere strategie volte all'autoprotezione: dopo una fase iniziale in cui verranno proposte
alcune riflessioni su ciò che è violenza e abuso saranno presentate strategie di risoluzione del
conflitto alternative alla violenza. Costruzione di un "piano di protezione": mappa mentale dei
luoghi sicuri e della rete sociale protettiva.
Condizioni per accedere al gruppo: le violenze devono essere state interrotte, il minore è in una
situazione di protezione, non presenta psicopatologie conclamate e non è stato egli stesso vittima
di violenze.

Dott.ssa Sara Perna

Bibliografia: "La violenza assistita intrafamiliare - Percorsi di aiuto per i bambini che vivono in
famiglie violente", a cura di Roberta Luberti e Maria Teresa Pedrocco Biancardi, 2005, Franco
Angeli, Milano.







Dott.ssa Sara Perna